Lo aveva detto Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, ora lo conferma anche Sergio Lari procuratore capo di Caltanissetta e per anni aggiunto della Dda di Palermo: “Ci sono fondati motivi per ritenere che Matteo Messina Denaro non sia il capo di Cosa Nostra ma solo il capo provinciale della mafia di Trapani con qualche interesse nel Palermitano”.
Affermazioni che, nei giorni scorsi, avevano indotto il Viminale a ribadire che “la cattura della primula rossa trapanese è e resta una priorità e non si è fatto alcun passo indietro nella sua ricerca”. Una precisazione dettata forse dalla paura che il rincorrersi di queste affermazioni nascondesse un arretramento nella lotta alla mafia.
Così non sarebbe. Al contrario la lotta alla mafia sarebbe sul punto di fare il suo salto di qualità. Lo fa capire bene Gratteri quando, nel parlare di Messina Denaro, fa riferimento ad un rapporto esistente e dettagliato. Quattrocento pagine in cui si parla di tutte le mafie. Un investigativo tratto, in parte, dalla relazione periodica della Dia, che disegna scenari un poco meno semplicistici di quelli usati per spiegare Cosa Nostra alla gente.
A guidare la mafia non sarebbero più gli uomini di una volta. Totò Riina resta il numero 1, comanda dal carcere ma i veri capi sarebbero incensurati, porterebbero giacca e cravatta e starebbero comodamente seduti nelle stanze dei bottoni. Sarebbero politici, banchieri, grandi finanzieri e non è detto che si tratti di siciliani. Questo lasciano capire gli inquirenti quando parlano a ruota libera senza riferirsi ad una indagine specifica.
L’ala armata della mafia esiste ancora ma ormai sarebbe più delinquenza che altro, e risponderebbe alle esigenze di chi muove i grandi flussi di denaro. Colletti bianchi, dunque, o eminenze grigie o usate pure qualsiasi altro luogo comune o modo di dire. fatto sta che il salto di qualità di cui tanto si è parlato, l’insabbiamento delle operazioni criminali, è ormai compiuto da parte della mafia.
Una strategia iniziata un decennio fa o poco più, nel ’93 per l’esattezza, quando i vertici veri ed occulti decisero che il sistema stragista, lo scontro diretto con lo Stato non poteva funzionare. In quel contesto maturò “il piano”.
Sull’altare di questo piano Riina sarebbe stato “consegnato” forse per effetto della “trattativa” sulla quale oggi si indaga, forse tradito con il bene placido di Provenzano. Lo stesso boss silente, Bernardo Provenzano, poi si sarebbe consegnato in un modo simile.
Se la mafia ha fatto il salto di qualità ora tocca agli inquirenti fare un analogo salto di qualità. Questo il messaggio che i procuratori vogliono fare passare: occorre un nuovo livello di guardia e di indagine.
Non sembra un caso neanche che proprio adesso l’eurodeputato Pd Pino Arlacchi parli a Panorama di processo bufala riferendosi proprio al dibattimento in corso sulla trattativa. “Si concluderà con il totale flop – dice Alacchi che di mafia si è spesso occupato -. E’ una bufala su cui si sono costruite carriere immeritate: non c’è una sola prova seria a sostegno di questa allucinazione. Rottamiamo una certa idea della mafia. Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21: è solo e abbandonato, secondo tradizione mafiosa. E’ stato intercettato nel giugno 2013 mentre si sfoga contro tutto e tutti”.
Dunque un processo nato non alla ricerca della verità ma per costruire carriere dice Arlacchi secondo le anticipazioni di Panorama. In questo clima si fa avanti una nuova leva di magistrati o meglio conquista gli scranni più alti un gruppo di magistrati esperti ma forse non sempre al vertice, non sempre in prima linea nelle scelte investigative del passato, e con loro si vuol far strada ad inchieste diverse.
La domanda che resta è solo una: ma allora chi tira le fila di tutto?