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“Bocca di rosa”, squillo nel Messinese Come funzionavano le sei case ‘hot’

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Erano almeno venti le ragazze indotte a prostituirsi nelle sei case del piacere scoperte dai carabinieri tra Messina e San Fratello. L’organizzazione era quella delle classiche case chiuse, diffusissime nelle città italiane prima che la legge Merlin, nel 1958, le vietasse. Ogni casa aveva la sua maitresse ed erano tutte in contatto tra loro. Un business fruttuoso: ogni casa incassava circa mille euro al giorno, che comprendeva almeno venti persone nella gestione delle ragazze. Sono proprio venti infatti gli indagati: 17 dei quali sottoposti a misura cautelare. (GUARDA I VOLTI DEGLI ARRESTATI)

Le indagini svolte dai militari dell’Arma e coordinate dalla Procura della Repubblica di Messina e in particolare dai sostituti procuratori Maria Pellegrino e Antonio Carchetti, hanno accertato che i gestori delle sei case hot agivano in un sistema di stretta collaborazione. L’attività di reclutamento e induzione alla prostituzione delle ragazze veniva effettuata in comune. Poi le prostitute venivano “smistate” nelle case che, di volta in volta, ne avevano bisogno.

Un modus operandi ben consolidato quindi, descritto dettagliatamente nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari firmata dal gip del Tribunale di Messina, Salvatore Mastroeni.

Le indagini, iniziate nell’agosto del 2012, hanno consentito di ricondurre a questa vicenda lo sfruttamento di almeno 2o ragazze, di cui 15 identificate, le quali venivano impiegate “a rotazione” secondo le richieste che pervenivano dai clienti di ognuna delle sei case. In caso di assenza di una di loro, talvolta erano le stesse “maitresse” a prostituirsi, per poter in ogni caso soddisfare il cliente del momento.

La clientela veniva reperita anche attraverso internet, mediante l’inserimento di espliciti annunci in vari siti della rete web. Una volta entrati nel giro, i “clienti” venivano avvisati telefonicamente ogni qualvolta si verificava la disponibilità di nuove ragazze. In queste fasi, le indagini è stato necessario decifrare di un linguaggio in codice che gli indagati utilizzavano per comunicare con i clienti.

Particolarmente sconvolgente è quanto emerso in relazione a uno degli indagati: Antonino Barrile.  L’uomo, oltre a far parte dell’organizzazione, è anche ritenuto responsabile, insieme ad altri cinque indagati, di sfruttamento e riduzione in schiavitù nei confronti della propria convivente, sulla quale veniva esercitata una forma di coercizione fisica e psichica, facendo leva sul suo stato di debolezza mentale.

In particolare, la riduzione in schiavitù è stata ravvisata in danno ad una donna barbaramente costretta, dal proprio convivente, a concedersi ai vari clienti, subendo una vera e propria coercizione fisica e psichica, a causa del suo stato di debolezza mentale.

L’organizzazione del sodalizio è stata ricostruita dagli investigatori, fino ad arrivare a definire la struttura di ognuna delle sei “case di prostituzione” ed il ruolo delle persone coinvolte:

Ecco come erano suddivise le case:

Casa “Perre”, con affiliati Giovanni Cisco, Antonio Gumina  ed Vincenzo Inuso, su cui hanno nel tempo ruotato 9 ragazze sfruttate;

Casa “Comandè”, di Carmela Comandè, affiliati Antonino Barrile, Nicolò Carlino, Patrizia Costa, Michele Ferro, Giuseppa Pulejo e Cirino Oriti, nell’ambito della quale venivano fatte prostituire 4 ragazze;

Casa “Scucchia”, di Pietra Scucchia ed affiliato Antonino Guarnera, all’interno della quale si concedevano a pagamento 4 ragazze;

Casa “Piazza”, di Vincenza Piazza, che era solita ospitare gli incontri di 2 ragazze;

Casa “Di Pietro”, di Santina Di Pietro Fazio, alla quale venivano indirizzate 2 ragazze;

Casa “Pascale”, di Alfredo Pascale e Mallikawathi Edirisinga Arachchige, i quali, pur avendo un ruolo meno attivo nell’ambito del sodalizio, contribuivano mettendo a disposizione la propria casa per gli incontri tra 2 ragazze ed i clienti del momento, laddove le altre fossero impossibilitate a farlo.


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