A dispetto del suo cognome, Fabio Mollo è un tipo tostissimo che della caparbietà ha fatto uno stile di vita. E il film del suo (splendido) esordio, ‘Il Sud è Niente’, vede la protagonista 21enne calabro-svedese, Miriam Karlkvist in ‘pole position’ a rappresentare l’Italia e aggiudicarsi il premio come ‘shooting star’ al Festival di Berlino del prossimo gennaio. Non c’è che dire: un esordio col botto quello di Mollo e la sua ‘troupe’, come lui, al debutto sul grande schermo. A trentatre anni il ‘ragazzo di Calabria’ ha già vinto un numero imprecisabile di premi nei festival di cinema di mezzo mondo (a Toronto è stata ‘standing ovation’) e, adesso, viene osannato dai suoi stessi conterranei che lo hanno visto girare il suo primo lungometraggio, ‘Il Sud è Niente’ tra Cannitello, Reggio Calabria e Messina. Novanta minuti di pura poesia, inquadrature ragionate, dialoghi taglienti come una lama. E tanti silenzi che riempiono il grande schermo più di mille parole per raccontare la storia di una donna acerba (Miriam Karlkvist) in un corpo che somiglia a quello di un ragazzo. O, meglio, la storia di una presa di coscienza sessuale, individuale e sociale di una ragazza che decide di prendere le forme del fratello più grande, scomparso misteriosamente e di cui il padre ‘pescestoccaro’ (oberato dal ‘pizzo’) non vuol parlare.
Grazia cerca verità nascoste, in una terra che ha lo Stretto come sfondo. E, tuffandosi nel silenzio degli abissi marini, trova la forza di combattere il silenzio degli abissi terrestri di Reggio Calabria. Con tutta l’ostinazione ‘sudista’ di cui è capace, alla fine, Grazia troverà quelle risposte che ha sempre cercato, in un mare che ha le sembianze d’un liquido amniotico e che ci riporta al cinema di Jane Champion o Emanuele Crialese.
‘Il Sud non è Niente’, in un certo senso è la ‘long version’ de I Giganti’ (che nel 2007 ha vinto al Torino Film Festival). Ma è che il tuo saggio di fine corso al Centro Sperimentale, dove ti sei diplomato. Perché svilupparlo?
“Dopo aver visto ‘I Giganti’, molti hanno trovato che avesse già l’aria del film e ci hanno consigliato di svilupparlo: li anima lo stesso sentimento e lo stesso slancio ma la sua ragion d’essere è diversa e, girando, ‘Il Sud è Niente’, scritto a quattro mani con Josella Porto, abbiamo ucciso ‘I Giganti’.
Dopo il diploma, a diciotto anni, voli a Londra e ci rimani. A differenza di Grazia, tu hai lasciato la Calabria…
“Il mio sogno era quello di fare il giornalista dopo la laurea in scienze politiche internazionali. Il caso, però, ha voluto che, accanto a quella facoltà, ci fosse l’università di Arti Visive. Ho finto di ‘sbagliare’ porta più d’una volta, infilandomi nella facoltà sbagliata: ero affascinato da quello che s’insegnava. Poi, ho preso la decisione più difficile: cambiare studi e mi sono laureato alla University of East London proprio in Arti Visive”.
Quando abitavi a Reggio, qual era il tuo rapporto con il cinema?
“Di assoluta fascinazione. Frequentavo il Circolo del Cinema ‘Charlie Chaplin’. Andavo nel pomeriggio, mi sedevo nelle ultime file e rimanevo abbagliato da visioni che, solo tempo dopo, ho saputo cosa fossero: avevo visto il meglio di Ken Loach, Michelangelo Antonioni senza ancora sapere bene chi fossero… Ancora adesso sconosco il titolo di un film bellissimo che mi ha rapito. Ricordo solo che era irlandese. E nessuno oggi, è riuscito a darmi la risposta giusta”.
Quindi, per fare del buon cinema, non serve essere critici o enciclopedici?
“La tecnica s’impara, la passione non s’insegna”.
Se ‘Il Sud è Niente’, il Nord è tutto?
“Le dinamiche nord-sud c’entrano poco: il sud è una metafora, locale e universale al tempo stesso. Questa è una storia trasversale che racconta la mia generazione che non ha opportunità, schiacciata dalle scelte degli adulti e dai loro silenzi senza risposte”.
Chi ti ha ispirato per la storia di Grazia?
“La voce guida è sempre stata mia nonna Lucia che, a dispetto dei suoi 92 anni, mi ha accompagnato a Roma per il Festival. Il film è un omaggio a lei: i suoi racconti, la mia storia personale e un pizzico di magia sono alla base del film. Che abbiamo girato in quattro settimane, lo scorso anno, in novembre”.
Quanto è costato?
“In termini di salute, circa vent’anni. Il ‘budget’ s’è nutrito di piccoli finanziamenti, racimolati qui e lì. Io non avevo neanche un monitor dove poter rivedere il girato del giorno… Non avevamo i soldi per il caffè che veniva offerto alla troupe dagli abitanti del luogo o da mia nonna. Che ha ‘adottato’ tutti gli attori, diventando la ‘matriarca’ del film”.
Come spieghi la produzione francese del film?
“Non me lo spiego affatto. O forse, sì: gli italiani sono ‘esterofili’ e spesso snobbano i prodotti dei giovani cineasti. Invece, Jean-Denis Le Dinahet e Sebastien Msika (che hanno vinto il premio ‘Camera d’Oro’ al recente Roma Festival) hanno insistito per girare ‘a casa mia’ per puro sentimentalismo. Nell’estate 1970, il padre di Msika, per un guasto alla barca, rimase fermo a Catona per un mese, innamorandosi del luogo tanto da tornarci ogni anno. Quando Sebastien ha deciso di fare il produttore è sembrato naturale ritornare nello Stretto. Che, invece, è largo ed è una metafora della vita: perché quando pensi che la sponda opposta sia vicina, capisci che s’allontana sempre più e non riesci a toccarla”.