L’epidemia influenzale tocca il picco proprio in questi giorni e l’arancia rimane sempre un vecchio e valido antidoto per evitare di rimanere a letto. Da tempo, però, le arance siciliane devono combattere una singolare battaglia senza esclusione di colpi contro i concorrenti del resto del mondo, spagnoli in testa. Una sorta di battaglia delle Termopili, quando ‘pochi tennero testa a molti’.
Portate in Sicilia dagli Arabi durante la loro dominazione, le arance hanno rappresentato e rappresentano, una risorsa importante per la nostra regione come testimoniano i dati diffusi dall’Istituto Nazionale di Statistica.
Nel 2013 la Sicilia ha prodotto e raccolto oltre un milione di tonnellate di arance, un risultato importante se si pensa che la produzione nell’intera penisola è stata pari a un milione e settecentomila tonnellate. La metà della produzione siciliana è prodotta negli agrumeti della provincia di Catania, al secondo posto troviamo gli agrumeti del Siracusano con 375mila tonnellate e, al terzo, quelli della provincia di Agrigento con poco più di 95mila tonnellate.
La Sicilia rimane l’attore principale di questo mercato e, quindi, nel bene e nel male risente di più delle altre regioni italiane delle dinamiche di questo settore.
L’ISMEA (Istituto di servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), ha divulgato una presentazione molto interessante durante la riunione dell’Organismo Interprofessionale, intitolata “Il mercato della arance: tendenze recenti e dinamiche attese”.
L’Istituto giudica il complesso dei nostri aranceti come di piccole-medie dimensioni, poco moderni e con problemi fitosanitari. Questi, insieme a una catena di distribuzione con troppi passaggi, problemi organizzativi e di infrastrutture, porta ad una perdita di competitività nei confronti dei principali attori del settore come Spagna (leader nell’UE), Marocco e Paesi Bassi.
Siamo, inoltre, poco presenti nei nuovi mercati dell’Est Europa e dell’Arabia, mercati la cui domanda sta aumentando.
La metà delle arance raccolte viene acquistata dai consumatori, circa un quarto finisce alle imprese che producono dolci, marmellate e succhi, mentre solo il 5 per cento delle arance viene esportata e un consistente 20% viene perso. Inoltre, importiamo il 7% della produzione.
All’estero vendiamo, soprattutto, agli altri Paesi Europei, ma dal 2011 si è verificata una diminuzione delle esportazioni mentre nello stesso anno si registra una crescita dell’import da altre nazioni, soprattutto, dalla Spagna e dalla Repubblica Sudafricana.
In conclusione, pur avendo a disposizione marchi di qualità e una terra che si presta molto bene a questo tipo di coltivazione, perdiamo competitività per via della poca modernità, la poca capacità di investire nei prodotti di qualità e un sistema di trasporti inadeguato che porta i nostri prodotti ad essere più costosi.
La Spagna produce il triplo delle arance prodotte in Sicilia e riesce a battere spesso la nostra concorrenza grazie ad una valorizzazione dei prodotti di qualità, ad una migliore organizzazione logistica, ad una rete di infrastrutture che collega i principali centri di produzione (Murcia, Valencia, le Isole Baleari e l’Andalucia) a centri di smistamento e ad un clima che permette loro di avere produzioni in tempi diversi (è possibile, infatti, mangiare delle arance fresche dagli alberi dei giardini di Murcia persino a luglio).
Ecco perché, la sfida delle nostre arance somiglia a quella delle Termopili: hanno davanti un avversario più numeroso e meglio “armato”. Abbiamo le competenze e la capacità necessarie ad impedire che esse facciano la stessa fine di Leonida e degli spartani. Questa non è Sparta, ma sono in gioco le vite, i sogni e le speranze di quanti vivono di agrumicoltura che rimane un caposaldo della nostra economia.